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Demenza La demenza è una sindrome clinica caratterizzata dalla compromissione delle funzioni cognitive (in particolare della memoria, accanto ad altre quali il linguaggio e l'astrazione), d'entità tale da interferire con le abituali attività sociali o lavorative del soggetto. Oltre ai sintomi cognitivi sono presenti quasi invariabilmente sintomi comportamentali (non cognitivi), che riguardano la sfera della personalità, l'affettività e il comportamento, nonché le funzioni vegetative, soprattutto sonno e alimentazione (Ritchie e Lovestone, 2002; Cummings, 2004). Secondo PItalian Longitudinal Study on Aging Working Group (1997), la demenza in Italia colpisce il 7,2% dei maschi e il 5,3% delle femmine oltre i 65 anni di età; inoltre sarebbero prevedibili approssimativamente 150 000 nuovi casi l'anno (Di Carlo et al., 2002). Sulla base delle proiezioni delle Nazioni Unite relative alla popolazione mondiale fino al 2050, il numero di persone affette da demenza aumenterà dai 25,5 milioni del 2000 a 63 milioni nel 2030, fino a 114 milioni nel 2050 (Wimo et al, 2003). Una semplice formula matematica, applicabile a qualsiasi realtà, sia essa rappresentata da una città o una regione, permette di ottenere una più chiara immagine della diffusione delle demenze. Infatti, dall'età di 65 anni la prevalenza della demenza raddoppia ogni quinquennio fino a 90 anni: ossia, nel gruppo d'età tra 65 e 69 anni la demenza ha una prevalenza dell'1,5%; nella fascia 70-74 del 3%; tra i 75 e i 79 del 6%; tra gli 80 e gli 84 del 12%, e nella fascia 85-89 del 24%. Oltre i 90 anni interessa il 35-45% della popolazione. Per la loro dimensione epidemiologica le demenze rappresentano oggi una delle principali sfide per i sistemi sociali e sanitari del mondo occidentale. Questo fenomeno risulterà particolarmente evidente in quelle popolazioni che stanno ora assistendo al progressivo aumento delle prospettive di sopravvivenza, ossia delle aspettative di vita media. Le malattie associabili all'insorgere di demenza accompagnano l'umanità fin dai suoi albori. A Pitagora si attribuisce la prima osservazione di declino cognitivo associato all'età. Egli divise il ciclo vitale in cinque stadi distinti, con inizio rispettivamente a 7, 21, 49, 63 e 81 anni, identificando gli ultimi due come «vecchiaia» (senium), e cioè come rappresentativi di un periodo di declino e decadenza dell'organismo e di involuzione delle capacità mentali: il sistema ritorna all'imbecillità del primo periodo dell'infanzia. Anche Ippocrate fu consapevole del declino mentale che caratterizzava molti anziani, e che egli riteneva un'inevitabile conseguenza dell'invecchiamento determinato dallo squilibrio dei quattro umori principali (sangue, flegma, bile nera e bile gialla). Da essi dipende l'armonia interna dell'organismo e quindi lo stato di salute; con l'invecchiamento, a causa della perdita di calore e umidità, secondo Ippocrate il corpo diventa «freddo» e «secco» e questo predispone al malfunzionamento cerebrale. Aristotele riteneva che il cuore fosse la fonte della vita e la sede dell'intelligenza umana. Egli sosteneva che la vita dipende da un calore interno connesso all'anima localizzata nel cuore; il consumo progressivo di tale calore, fino al suo completo esaurimento, provoca la morte. Accanto al suo maestro Platone, Aristotele era inoltre convinto che l'età avanzata fosse inseparabile dal declino dell'intelletto: giudizio, immaginazione, ragionamento e memoria vengono compromessi e ciò rende gli anziani inadatti a cariche di responsabilità amministrativa. Cicerone, al contrario, con grande perspicacia sostenne che la stoltezza senile - chiamata rimbambimento, pazzia o delirium - non è inevitabile e suggerì che una vita mentalmente attiva sarebbe in grado di prevenire o almeno posporre il declino cognitivo. Tuttavia, il predominio culturale delle teorie aristoteliche mise in ombra la mirabile intuizione di Cicerone. All'enciclopedista Aulo Cornelio Celso si deve l'introduzione del termine «demenza», apparso per la prima volta nel 30 d.C. nel De Re Medicina. Il termine indicava però in modo generico le condizioni caratterizzate da alterazioni dell'intelligenza e del comportamento, senza alcun riferimento specifico alla vecchiaia o all'età avanzata. Fu Claudio Galeno, il più illustre esponente della medicina romana, a collocare per la prima volta la morosis (termine che indicava la demenza) nell'elenco delle malattie mentali, identificandola fra le condizioni associate alla vecchiaia. Per Galeno la vecchiaia era di per sé una malattia, e il decadimento delle funzioni cognitive una delle sue ineluttabili conseguenze. Esistevano infatti due tipi principali di malattie: quelle inevitabili e incurabili in quanto facenti parte del processo vitale, e quelle che potevano essere evitate o curate; la vecchiaia apparteneva alle prime. Galeno, che dopo Ippocrate fu il medico più famoso dell'antichità, rappresentò un'autorità non solo in campo medico ma anche in quello filosofico, e influenzò la cultura per molti secoli, fino al Rinascimento. In breve, nel periodo greco-romano il decadimento cognitivo delle funzioni mentali era considerato un'inevitabile conseguenza dell'invecchiamento, e l'invecchiamento stesso una malattia. Successivamente a Galeno, nel periodo medievale il progresso delle conoscenze scientifiche, in particolare anatomiche e fisiologiche, subì un marcato rallentamento fino al XVI secolo. Accanto a molti altri, il problema del decadimento cognitivo associato alla vecchiaia sembrò oscurarsi. L'unica eccezione fu rappresentata dal frate francescano R. Bacone, che nelle sue teorie si ispirò alla medicina greco-romana, pur inserendola in un quadro teologico cristiano, e pochi anni prima della sua morte -all'età di 80 anni - scrisse un lavoro intitolato Metodi per prevenire la comparsa della senilità, dove suggeriva un regime alimentare che aiutasse a mantenere l'umidità del corpo, e quindi a base di carne, vino, rosso d'uovo e legumi. Ma il contributo più importante di Bacone è rappresentato dall'aver identificato nel cervello la sede della memoria e del pensiero, in aperto contrasto con le vigenti teorie aristoteliche. Il progresso delle conoscenze sulla demenza si sviluppò assai lentamente fino al XIX secolo, poiché il declino cognitivo sostanzialmente continuava a essere visto come un inevitabile correlato dell'invecchiamento. Tuttavia, non mancarono significativi avanzamenti nell'interpretazione della malattia. Nel XVII secolo Th. Willis, medico personale di Carlo II, attribuì la stoltezza alle seguenti cause: 1) malattie congenite; 2) età avanzata; 3) traumi cranici; 4) abuso di alcol; 5) malattie somatiche; 6) epilessia. M. Braille, eminente medico inglese, fu verosimilmente il primo a osservare la presenza di atrofia cerebrale in un anziano demente. Verso la fine del XVIII secolo, il patologo W. Cullen classificò le malattie in quattro classi, una delle quali era costituite dalle neuroses (malattie nervose). In questa classificazione la demenza senile venivaticonosciuta per la prima volta come una malattia definita da declino delle percezioni e della memoria, nell'età avanzata (amentia senilis). Nel complesso, comunque, è possibile affermare che dal tempo degli antichi greci e romani fino al XIX secolo, non si sono osservati fondamentali progressi nella conoscenza della demenza. È con l'inizio dell'800 che si registrano i primi sostanziali avanzamenti, culminati soprattutto nel corso della seconda metà del secolo scorso. Il primo grande balzo interpretativo si deve a Ph. Pinel, che contrastò la prassi che prevedeva che le persone insane di mente (compresi gli anziani dementi) fossero incarcerate. Pinel sosteneva che la pazzia non era un crimine bensì una malattia. Grazie al suo operato, gli insani di mente furono liberati, accolti e curati in istituzioni più umane. Ciò rese possibile lo sviluppo della conoscenza clinica e patologica delle malattie mentali. Si deve soprattutto a J. Esquirol la fondazione della moderna classificazione delle malattie mentali. Nel 1838 Esquirol identificò con il termine «demenza» un quadro clinico caratterizzato da perdita della memoria, della capacità di giudizio e dell'attenzione. In seguito, per molto tempo in ambito psichiatrico non fu effettuata alcuna distinzione fra disturbi su base organica o funzionale, cosicché il termine assunse un significato ampio e generico, sia nell'accezione popolare che in quella medica. Tuttavia, il concetto di demenza senile cominciò a emergere come una condizione medica piuttosto ben definita. Attorno al 1860 ci si rese conto che la demenza era associata a una riduzione dette dimensioni e del peso dell'encefalo, e che tale condizione poteva essere determinata da alcolismo cronico, sifilide del sistema nervoso centrale, oppure dal processo di invecchiamento. Grazie ai progressi delle conoscenze la demenza dovuta a sifilide fu la prima a essere caratterizzata dagli psichiatri. Poiché il danno cerebrale vascolare caratterizza la demenza sifilitica, l'atrofia cerebrale fu associata al danno ischemico. Sia A. Alzheimer che O. Binswanger descrissero ampiamente l'atrofia arteriosclerotica del cervello. Da allora la degenerazione arteriosclerotica cerebrale è stata considerata la premessa per lo sviluppo dell'atrofia cerebrale senile e della demenza senile. L'ipotesi dell'arteriosclerosi come causa principale di decadimento senile perdurerà fino atta fine degli anni '60 del XX secolo. Nel 1907 Alzheimer, e nel 1909, con maggiori dettagli, G. Perusini, descrissero il quadro clinico-patologico di una donna di 51 anni (Auguste D.) che aveva sviluppato un progressivo decadimento cognitivo con deliri e incompetenza sociale. All'esame au-toptico furono riscontrate atrofia cerebrale, placche senili (extracellulari) e gomitoli neurofibrillari (intracellulari). Gli aspetti clinici e neuropatologici della paziente si differenziavano chiaramente dai quadri di demenza dovuti a neurosifilide o a ischemia cerebrale; Alzheimer pertanto ipotizzò una nuova malattia. Nel 1910, E. Kraepelin suggerì l'eponimo «malattia di Alzheimer» per definire un gruppo di demenze senili con le caratteristiche alterazioni neuropatologiche descritte da Alzheimer e Perusini; successivamente questo termine caratterizzò più in generale tutte le forme di demenza degenerativa primaria. Nei decenni successivi, fino agli anni '60, l'attenzione fu rivolta alla caratterizzazione delle placche e dei gomitoli neurofibrillari osservati in pazienti con demenza sia senile (oltre i 65 anni) che presenile; nel contempo ci si chiedeva se queste entità - senile e presenile - fossero realmente diverse; cominciò inoltre ad affacciarsi l'ipotesi di una componente genetica nella genesi della malattia di Alzheimer. Fino alla seconda metà del secolo scorso, tuttavia, l'interesse per gli aspetti diagnostici e clinici è rimasto piuttosto scarso e la demenza è stata considerata sia l'esito finale comune di svariate condizioni patologiche, che un processo inevitabile legato alla senescenza. La maggiore disponibilità di tecniche di studio del funzionamento del sistema nervoso centrale (in vivo e in modelli sperimentali), una più chiara conoscenza dei processi neuropsicologici, e l'avanzamento delle tecniche e delle conoscenze neuropatologiche, dagli anni '60 in poi hanno portato a una più precisa caratterizzazione clinica delle demenze e alla loro distinzione sia dalle psicosi in generale che dalle modificazioni delle funzioni cognitive riscontrabili con l'invecchiamento. Negli anni '60, grazie soprattutto all'opera di M. Roth, G. Blessed e B. Tomlinson, venne dimostrata un'associazione tra entità delle lesioni - placche e gomitoli neurofibrillari - e grado di deterioramento cognitivo. Fino alla metà degli anni '70, tuttavia, la malattia di Alzheimer venne considerata una condizione rara; infatti il declino cognitivo degli anziani veniva genericamente attribuito a processi arteriosclerotici. Le varie edizioni del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) consentono di tracciare rapidamente l'evoluzione culturale del concetto di demenza. La prima edizione del 1952 non riportava né il termine demenza né quello di malattia di Alzheimer, bensì identificava una «sindrome cerebrale organica» (Obs) cronica, più o meno irreversibile, che abbracciava tout court praticamente tutte le condizioni di declino cognitivo degli anziani. Questo modello interpretativo, malgrado le critiche, resistette fino al 1980. Il DSM-II (1968) cita sia le demenze senili che quelle presenili, collocandole però nella categoria delle psicosi associate a Obs. Nelle successive edizioni (1980; 1987; 1994) viene abbandonata la definizione di Obs e viene introdotto il termine di demenza definita come perdita delle abilità intellettive (memoria in primis) di entità tale da interferire con le abituali attività sociali e occupazionali. Attorno alla metà degli anni '70, l'accumularsi delle conoscenze portò al riconoscimento del fatto che la malattia di Alzheimer e la demenza senile erano essenzialmente la stessa malattia. Da allora la malattia di Alzheimer viene riconosciuta come la principale responsabile (nel 50-60% dei casi) di deterioramento cognitivo dell'anziano, seguita dalla demenza su base vascolare ischemica (10-20% dei casi) e da altre malattie neurodegenerative, quali la demenza a corpi di Lewy e la demenza fronto-temporale (10-20% dei casi); il 10% delle sindromi demenziali è ritenuto secondario a patologie potenzialmente reversibili. L'introduzione di criteri clinici definiti per la malattia di Alzheimer ha rappresentato un ulteriore avanzamento nella caratterizzazione clinica della demenza, permettendo una più chiara e riproducibile differenziazione dalle altre condizioni patologiche nelle quali è possibile riscontrare un decadimento cognitivo. I criteri clinici per la diagnosi di demenza e di malattia di Alzheimer rappresentano oggi un punto di riferimento consolidato sia per la prassi clinica che per la ricerca. Gli ultimi trent'anni sono stati teatro di intensa ricerca sulla malattia di Alzheimer, indagata da prospettive interpretative diverse, ma soprattutto biochimiche, molecolari, genetiche ed epidemiologiche. Al crescente interesse per le patologie dell'anziano, e dell'invecchiamento cerebrale nella sua ampia gamma di espressioni, ha contribuito in modo determinante la radicale trasformazione demografica della popolazione occidentale, nella quale l'aspettativa di vita media alla nascita, di circa 42 anni all'inizio del '900, ha raggiunto oggi i 75 anni nei maschi e gli 82 nelle femmine. Attualmente, secondo l'ipotesi più accreditata, la malattia di Alzheimer rappresenta la conseguenza dell'eccessivo accumulo di frammenti insolubili di β-amiloide, principale costituente delle placche senili; il problema starebbe nella sua eccessiva produzione oppure nel suo difettoso smaltimento. Evidenze relative a queste ipotesi provengono soprattutto dalla ricerca in campo genetico: tutte le mutazioni osservate, associate alla comparsa di malattia di Alzheimer (3-5% dei casi), comportano un eccessivo accumulo di β-amiloide. La formazione di grovigli neurofibrillari, l'ossidazione dei grassi, la tossicità glutam-matergica, l'infiammazione e la cascata apoptotica (suicidio cellulare programmato) sono considerati come conseguenti alla deposizione di β-amiloide; rappresentano pertanto potenziali obiettivi terapeutici. Ipotesi alternative, rispetto ai meccanismi connessi alla genesi della malattia di Alzheimer suggeriscono il coinvolgimento della proteina Tau, dei metalli pesanti, oppure di fattori vascolari o virali. La principale componente dei grovigli neurofibrillari, elemento caratteristico della malattia di Alzheimer, è la proteina Tau; accanto alla β-amiloide, questa proteina potrebbe essere l'obiettivo di terapie farmacologiche nel prossimo futuro. Il tentativo di bloccare la deposizione di β-amiloide tramite un vaccino ha sino a ora fornito risultati deludenti. I progressi in campo neurochimico sono stati, sia pure con ampi limiti, più fruttuosi; partendo dalla constatazione che nella malattia di Alzheimer vengono danneggiati i sistemi colinergici, si è giunti all'ipotesi colinergica della malattia di Alzeimer. Grazie a queste ricerche oggi disponiamo di farmaci sintomatici (donepezil, rivastigmina e galantamina) in grado di rallentare la progressione della malattia. I deficit dei neurotrasmettitori nella malattia di Alzheimer, però, coinvolgono anche sistemi neurotrasmetti-toriali noradrenergici e serotoninergici; ciò rende conto dei limiti dell'approccio terapeutico colinergico e dei farmaci oggi disponibili. Per la malattia di Alzheimer sono stati identificati come fattori di rischio l'età avanzata, la presenza di demenza in un familiare stretto, e l'essere portatori dell'allele E4 per l'apolipoproteina E. Per ora, non essendo questi fattori di rischio modificabili, non è possibile ipotizzare strategie preventive. Sulla base degli avanzamenti in campo neuropatologico, recentemente è stata ipotizzata una nuova classificazione delle demenze basata sul «deragliamento» del metabolismo di proteine cerebrali (piuttosto che sugli aspetti clinico-sintomatologici) quali la β-amiloide, la proteina Tau e l'α-sinucleina. La malattia di Alzheimer è pertanto sia un'amiloidopatia (placche neuritiche) che una sinucleopatia (grovigli neurofibrillari); al contrario, l'a-sinucleina è implicata nella demenza a corpi di Lewy (oltre che nel Parkinson-demenza e nell'atrofia mutisistemica); la proteina Tau è invece la principale responsabile della demenza fronto-temporale (nonché della paralisi sopranucleare progressiva). La demenza fronto-temporale abbraccia uno spettro di malattie che ha ricevuto nel tempo numerose definizioni. Fu A. Pick che nel 1892 descrisse il primo caso di demenza caratterizzata da disturbi del linguaggio e del comportamento (nonché dalla presenza di cosiddetti corpi di Pick intracellulari); successivamente, grazie alle ricerche effettuate a Lund e Manchester, nel 1994 si giunse a definire, nell'ambito della demenza fronto-temporale, tre possibili espressioni cliniche: la demenza frontale (caratterizzata da disturbi della condotta sociale e del comportamento), l'afasia non fluente progressiva e la demenza semantica. Anche per la demenza fronto-temporale è stata identificata, nel 1994, una mutazione localizzata sul cromosoma 17. Si ipotizza che circa il 40% delle demenze fronto-temporali abbiano una caratteristica diffusione familiare. La demenza a corpi di Lewy, infine, si colloca nell'ambito delle demenze con segni o sintomi parkinsoniani. L'elemento patologico caratteristico è costituito dalla presenza di corpi di Lewy intracellulari, principalmente costituiti da α-sinucleina. Sebbene il primo caso descritto risalga al 1961, i criteri clinici sono stati definiti solo nel 1996. Le demenze vascolari rappresentano una condizione per la quale disponiamo di ampie conoscenze rispetto ai fattori di rischio: ipertensione arteriosa, diabete, ipercolesterolemia, fumo, aritmie cardiache; è possibile pertanto predisporre efficaci interventi di prevenzione primaria in grado di contrastarne la diffusione. Questi interventi preventivi potrebbero influenzare positivamente anche la diffusione della malattia di Alzheimer, la cui incidenza sembra essere associata anche ai già citati fattori di rischio arteriosclerotico. DIEGO DE LEO e ORAZIO ZANETTI |